Prigionieri di una fede

Recitava così uno striscione d’una curva, per una di quelle squadre che in quella stagione inanellava l’ennesima annata di sofferenza dantesca. Prigionieri di una fede. Quella che li teneva lì, su quei gradoni, a supportare una delle peggiori squadre del campionato.

I tifosi di calcio, quelli veri. Quelli delle trasferte in posti dove non è passata nemmeno la macchina di Google Maps. Quelli che pagano un biglietto consci che lo spettacolo potrebbe non valere né il loro tempo né quei soldi. La fede per la propria squadra. Quando poi si è appassionati d’uno sport minore, spesso si vive con rassegnazione anche l’incerto destino della squadra.

Ho sempre pensato che per valutare correttamente l’opera di qualcuno si debba essere almeno rudimentalmente capaci di eseguire il medesimo lavoro. C’è poi una frase di Bobo Vieri che mi è sempre rimasta impressa, sulle pagelle dei giornali sportivi: “c’è gente che ti giudica senza essere capace di fare quello che fai tu”. Severo ma giusto.

Quello che posso raccontare, però, sono solo le sensazioni, l’esperienza di essere tifosi d’una squadra. Per questo ho fatto la cosa più ovvia al mondo: ho chiesto. A quelli che applaudivano, si disperavano ma erano lì, appunto, prigionieri di una fede.

Una fede che è cresciuta e si è radicata spesso sui gradoni di uno stadio, uno di quelli senza seggiolini, con una semplice gettata di cemento che pretendevano di chiamare gradinata. Che in qualche modo è tracimata in un campo al coperto, a guardare delle donne giocare a calcio, in cinque e con un pallone che non rimbalza come quello normale.

Ci vuole una fede assoluta per passare da “non mi piace il calcio a 5 dei maschi, figurati quello delle femmine” a percorrere centinaia di chilometri per esserci. Per la squadra, per quelle ragazze che alla fine impari a conoscere come non è possibile nel calcio “dei grandi”.

Allora quando è così che si radica un amore, al fulcro della tua passione vuoi bene anche quando non sta poi tanto bene. Quando è in difficoltà, quando non capisci cosa accade ma speri in un futuro migliore. Ti prepari alla sofferenza e speri che non prendano troppi gol, di trovare una dignità agonistica anche in una sconfitta.

La forza d’animo di navigare quei momenti distingue il tifoso dall'”occasionale”, da quello che si presenta solo per le partite importanti. La sofferenza di vedere la vostra squadra del cuore giocare la sua prima partita in Serie B della sua storia è una sofferenza che per comprenderla necessita di una fede assoluta.

Già, la fede. Fede è credere senza vedere, senza avere prove. È fiducia assoluta, incrollabile convinzione. Applicata allo sport, applicata al calcio, diventa indissolubilmente legata all’animo. Potete cambiare idea politica, convinzione religiosa, identità sessuale. Mai e poi mai potete cambiare fede sportiva. La vostra squadra è per sempre. Cambiare squadra del cuore è un atto di malafede assoluta, vi rende un pessimo essere umano.

Per questo quello sparuto gruppo di fedelissimi lo restano anche senza striscioni. Perché quell’applauso lì, per un’azione appena decente, racconta della loro fede cristallina e alla fine non puoi che abbracciarli. Ce ne fossero di tifosi così. Badate bene: tifosi, non ultras. Di questi ultimi parleremo in un’occasione diversa da questa.

Per quanto incomprensibili a me, un po’ come lo sono molte opere d’arte moderna, ascoltarli e raccogliere le loro parole mi è sembrato l’unico possibile racconto d’una stagione che ha come obiettivo emotivo: “non arrivare ultimi”. Loro possiedono quella fede tipica dei tifosi e sono lì, sugli spalti, nella speranza che la loro presenza in qualche modo allievi la sofferenza sportiva che arriva dal campo.

In fondo… “Fede è sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi”.


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