Ci sono storie di sport che partono da carte ufficiali, perfino da quelle d’archivio, e dovrebbero indurre a una riflessione. Non tanto legale, perché quella spetta ai professionisti, ma almeno morale. Perché le decisioni di un giudice, seppur sportivo, raccontano anche della cifra di civiltà di una disciplina.
Accompagnatemi tra queste carte, in cui si racconta di qualcuno che denuncia gesti percepiti come inappropriati da parte di un collega. Quella che in legalese viene definita “mano appoggiata sulla fascia lombare” e che per noi semplici lettori suona tanto come “mano appena sopra il culo”, però “culo” non lo puoi scrivere lì, sembra.
Un gesto che una parte definisce inappropriato e l’altra “un gesto di galanteria”. Una persona presente, pare informata sui fatti, è stata ascoltata per definire la portata di un gesto che nemmeno il denunciato ha negato. Mi ha fatto tornare alla mente quei soggetti interrogati dopo che un delitto efferato si è compiuto nella casa dei loro vicini: “una brava famiglia, mai un litigio”. Avrei voluto usare l’esempio di John Wayne Gacy, che si vestiva da pagliaccio e animava le feste dei bambini e nel tempo che gli restava, tra il 1972 e il 1978, ha ucciso e torturato almeno 33 giovani e giovanissimi. Ma mi è sembrato un filo esagerato. Però, ammettiamolo, è decisamente più paradossale.

Insomma: cosa sembra agli altri non è decisamente un elemento determinante.
I racconti divergono a questo punto. C’è chi riferisce di vigorose rimescolate degli affari propri, di frasi che non mi è sembrato di trovare nel Galateo, e chi afferma che tutto è nato da un rimprovero per aver mancato di riportare una rete realizzata durante la partita. Mi sembra giusto montare accuse di questo tipo perché si è stati rimproverati.
Non è il solo comportamento, derubricato come mai avvenuto, a destare un certo sconcerto — giova ricordarlo. Sono le motivazioni addotte dalla giustizia sportiva. Sembra infatti che “(…) ove avesse avuto effettivamente le intenzioni ‘provocatorie’ (…), [si sarebbe preoccupato] ad assicurarsi preventivamente di essere isolato dal resto dei locali (…)”.
Seriously? Davvero? Quindi, visto che la porta era aperta, non è mai successo. Perché per essere inopportuni bisogna isolarsi. Eppure ricordo ancora vividamente il “Maniaco del 7 Cep”, un soggetto che per anni (tanti anni fa… già, il tempo passa) soleva frequentare quella linea di bus indossando un lungo impermeabile, tipo l’Ispettore Clouseau ma senza il cappello. Soleva esserci negli orari di punta di una linea che serviva alcuni istituti superiori della città. Sotto quell’impermeabile, il “Maniaco del 7 Cep” indossava semplicemente gli “affari suoi”. Decenni prima degli smartphone, delle telecamere ovunque, le sue gesta restarono impunite per tantissimo tempo.

Però, in effetti, il bus aveva le porte chiuse, anche se di vetro. Forse ha ragione il collegio giudicante. Meglio con la porta chiusa.
Ma c’è di peggio. Secondo quanto scritto nella sentenza: “(…) ha segnalato l’episodio (…) due giorni dopo l’accaduto (…), mentre il grave disagio che sembra esserle derivato dagli episodi narrati avrebbe dovuto prevedibilmente suggerirle un’immediata reazione (…)”. Quindi se ci avete pensato, magari riflettuto, perché ovvio che al disagio della denunciante si somma quello di un processo, seppur sportivo. Allora non è grave. Se non ricordo male, Donald Trump è stato condannato per un grave episodio di molestie in virtù di una denuncia registrata 30 anni dopo i fatti. Però due giorni sono tantissimi.
La conclusione ha del geniale. I fatti sono “stati interpretati dalla denunciante in misura eccessiva rispetto all’effettivo intendimento (del) deferito”. Quindi sono queste donne che gridano allo scandalo per ogni minima cosa, giusto? Perché quello che conta è la galanteria. In fondo, l’uomo è cacciatore.
Gli anni ’50, in Italia, ancora.