Le strade della domenica

Le strade verso la partita alla domenica sono sempre sgombre. C’è quell’aria da pigro pomeriggio post pranzo, del sud Italia. Quello nel quale il caffè arriva alle 3 del pomeriggio, dopo un battaglia con la pasta fatta in casa, durata quasi due ore.

La luce del sole arriva da un traverso più basso, quello dell’inverno. Dal finestrino aperto arriva l’odore di pineta bagnata e salsedine.
L’unica differenza con le domeniche di calcio, quelle all’Adriatico e che nel palazzetto non c’è il caffè borghetti, nemmeno il tifo e non ho dimenticato il “cuscino” a casa. Quello rigorosamente degli anni ottanta, con la scritta “Pescara Rangers” e ricucito così tante volte che non assomiglia più all’originale.

Il Palazzetto Corrado Roma. Il PalaRoma. Con i corridoi bianchi, ridipinti, le targhette davanti agli spogliatoi e ai magazzini. Com’è che la normalità sembra così strana? I colori sembrano più scuri del solito, ma i miei occhi non sono “bravi” con i colori.

Sul parquet, riconosco tante volti. Saluti, cenni d’intesa e l’atmosfera del riscaldamento non cambia anche se si scivola fino alla base del movimento. Manca Alice. Perdo una delle possibili influencer. È tornata però Carla, quindi 1-1 per i soggetti da fotografare per le locandine digitali di Francesca. Dimenticavo c’è l’autista di autobus, che però è zero social quindi semi-inutile alla causa.

La luce bassa che entra dagli ingressi trasparenti, brucia le foto. Non importa il valore dell’attrezzatura. Contro-luce è sempre contro. Controvento, controcorrente, la strada è sempre più complicata.

In campo il Montesilvano, del quale un giorno capirò il perché della denominazione centrostorico. Scritto così, tutto attaccato. Dall’altra parte di nuovo il Chieti. Si, quello della pallonata in faccia.
Due partite, sempre la stessa. Fortunello me.

“Non mi fare le foto alla pancia, che si vede”. Ti adoro per questo, più che per la lunga coda di capelli. M’hai spiegato come fai a tenerla ferma, durante la partita. I capelli sono così lunghi che davvero penso si possano usare per scalare una torre, altro che padelle e fagioli magici. C’è chi a centrocampo poi, prova delle pose da modella.

L’arbitro si scalda e nuota allo stesso tempo. Stile libero, altamente rivedibile. Gli spalti iniziano a popolarsi e non che ci sia meno gente che in altre categorie. Una sorta di tornello, dove chi è in campo a volte è sulle tribune e viceversa. Raccontatemi però dei Vikings, dei tamburi e delle mascotte, anche quelle che si lasciano andare a gesti poco galanti ma divertentissimi.

Fischio. L’arbitro attraversa il campo per cambiare linea laterale. Non vi siete mai fermati a pensare: “Se inciampasse?”. Il gioco non scorre velocissimo e c’è un sacco di tempo per notare i particolari. Federica nasconde il fazzoletto in un risvolto del calzino e Cristina invece direttamente nella molla del pantaloncino. Penso a mia sorella che mi lascia i suoi “smarfoli” (fazzoletto usato pieno di moccio ndr) in giro per casa ogni volta che passa a trovarmi.

Li ho chiesti i nomi, ovviamente. La Serie C è pur sempre quel posto: “where nobody knows your name”.
Il numero sei in maglia neroverde, come il Venezia, ha un viso familiare. Non era seduta spessissimo in panchina l’ultima volta che ho visto la stessa partita? Forse rammento male, sarà stata la concussione.

Il sei è il numero del libero, quando i numeri erano dall’uno all’undici, obbligatori. Non avevano il nome sulle spalle e non erano una sorta di proprietà personale. Cristina fa due passi e poi arriva in scivolata a sventare la minaccia avversaria. L’intervento è pulito, quasi in anticipo sull’attaccante. Non è quel gesto disperato di chi è in ritardo. Mi ricorda quei giocatori degli anni settanta e ottanta. Quelli dall’eleganza nel movimento anche più duro. Senza le gambe ipertrofiche di Thuram o Varane, tanto che mi chiedevo allora, come oggi, dove trovassero allora, quella forza nell’intervento.

Questo parquet ha visto giocare i campioni d’Europa, gli unici italiani. Ha visto vincere e perdere scudetti. Ha una storia, che non conosce quasi nessuno, è piuttosto: “quello dietro al Burger King” anche se quest’ultimo è di più recente costruzione.
Se l’ascoltate il PalaRoma, chiudendo gli occhi, li potreste vedere quei grandi giocatori masticare il parquet. Potreste sentire la folla che fa eco ai movimenti di gioco. Attenti però che ad occhi chiusi, si rischia la vita.

Tutto è una questione di velocità, di svolte di vita, di persone giuste e di momenti sbagliati. Forse uno di quei fascini della Serie C di cui mi parla Nicola è proprio questo. Immaginare uno dei futuri possibili, di quelle svolte di vita che non sono solo una porta scorrevole in una metropolitana di Londra. What if, per una ucronia sportiva che ti accarezza il cuore e ogni tanto, è necessaria.

Massimo. Ha ha una sorella, come accade a tanti. Abbigliata in un perfetto tailleur, s’accomoda sugli spalti. Sarà che tra tagli di capelli realizzati da parrucchieri che le odiano, tute e jeans, le donne in abito, in un palazzetto, si notano come uno sciame di insetti che si spiaccica sul parabrezza.

Massimo, allena una delle due squadre. Ha quel fare cordiale, educato e poi quando sento la sua voce in un timeout dalla parte opposta del palazzetto mi chiedo se siano la stessa persona. Una sorta di Malesani, affabile per la maggior parte del tempo. Almeno fino a quando non erutta in qualcosa di simile ad un “Non sono mollo” oppure “Cos’è questa una giungla, cazzo”.
Non si vince niente in serie c, sono d’accordo. A pensarci bene non si vince nulla nemmeno in Serie A, nada. Zero. No scusate, si ricevono dei trofei in derivati della plastica.

Cristina, gioca una partita piena di contrasti duri, d’anticipo e di scivolate. Attenta, anche quando si soffia il naso. Una sua compagna: “hai giocato la partita della vita”. Se questa vita fosse stata riempita di partite come questa, chissà dove sarebbe oggi. Gioca quasi in silenzio. Adoro i giocatori che s’impongono così ma anche i trash talker. Sarà che non ho empatia per il detto latino: “in medio stat virtus”.

Ho l’impressione che la Serie C è anche quel luogo dove se hai un giocatore che salta l’avversario in dribbling, sei a metà dell’opera. Carla è appena tornata e deve trovare il ritmo. Ricordo una frase: “se non vinci i duelli diretti, non vinci le partite”, forse era il football, l’altro tipo di football.

Ci sono i dopo partita agitati, quelli in cui sarebbe meglio non parlare. L’adrenalina scorre allo stesso modo ovunque ci sia un tabellone segnapunti acceso. Attendo le ragazze all’uscita. Dallo spogliatoio chiuso, le voci arrivano concitate e distinte. Hanno un suono, un ritmo e un tono che ho già ascoltato. Dopo una sconfitta, vero Karen?

Oggi come allora, anche se l’allenatore quella volta ero io, propendo per una ritirata strategica. Messaggio. Colonna sonora di Sword Art Online nelle orecchie. Macchina in direzione di casa, che è quel luogo dove c’è il gatto bianco con l’animo agile e il mio computer. Appunti sparsi sul tavolo, da cucire insieme, come toppe per il cuore.

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