La Mamma di Chiara

Ci sono storie che iniziano dall’epilogo, e questa è una di quelle. La mamma di Chiara è morta, perché non c’è altro modo di scriverlo o raccontarlo. Tutto sembra meno definitivo, meno doloroso se usi parole diverse. Ma questa non è una storia triste, almeno non del tutto.

È una storia che inizia per caso, in uno di quei posti che esistono solo se ci entri. A passarci davanti con la macchina non ti accorgi nemmeno che ci sono. Ma se parcheggi, attraversi la strada e percorri poche decine di metri, ti ritrovi davanti a una rete da softball dentro un campo da baseball, a due passi da Chieti. Chieti, che devi cercare su Google Maps per scoprire dov’è.

Su quel campo c’è una giocatrice della nazionale olimpica di softball, o meglio, ci sarà tra qualche anno. Una tonnellata di talento al femminile, e a guidarle dalla panchina c’è un omone che scoprirò poi essere il re Mida del softball femminile mondiale. Dieci metri di vialetto coperto d’erba e ti ritrovi in un mondo completamente diverso da quello che hai appena lasciato.

Davanti a quella rete c’è Aura, che scoprirò più tardi chiamarsi Aurelia, un nome estremamente latino. Questa donna è quasi aggrappata alla recinzione e commenta la prestazione in campo di una delle giocatrici. Ha il piglio di chi quella disciplina l’ha giocata, non è il solito genitore convinto di aver in casa un campione. Aura impiega dieci secondi netti a conficcarsi nel mezzo dei miei ricordi.

Donna di una solarità che abbaglia anche di notte, si rivolge a me come se mi conoscesse da sempre e ha l’entusiasmo di chi vede un pezzo di sé, molto più giovane, lì in mezzo al campo a fare quello che lei ha sempre amato: giocare a softball. Ha impiegato così poco a diventare un ricordo, uno di quelli che vado a pescare ogni volta che voglio raccontare di un genitore che sa di sport, dello sport che praticano i figli.

I ricordi sono meravigliosi perché non li conserviamo esattamente come sono avvenuti. Il nostro cervello li ricostruisce ogni volta che ne ha bisogno. Diventano così ogni volta più belli, spesso meno dolorosi. La vita è già dolorosa così com’è, non serve conservare anche quello tra i ricordi.

Aura è anche in ogni volta che apro l’app di Postepay. Può sembrare una cosa sciocca, ma agli albori dell’app ebbi problemi nell’usarla. Lei lesse un post che avevo scritto e quando mi incrociò fuori da un supermercato si prodigò (era anche la sua professione) per spiegarmi come funzionava davvero, da insider.

Aura è Chiara, oppure più semplicemente Chiara è Aurelia. Crescendo, i figli fanno questa cosa: diventano un po’ i loro genitori. Chiara con un cannone al posto del braccio, uno di quelli che gli americani definiscono “athlete”, capaci cioè di praticare qualsiasi sport e di eccellere. Ma il suo amore è il softball, per il quale ha attraversato un oceano per andare a giocare al college in Texas, per il quale ha piegato la sua fisicità pur di battere la palla fuori dal campo.

Quando Aura si è ammalata ho pensato: “Passerà, non c’è verso che…” e invece. La mia immagine di lei è più grande e forte di quello che il suo corpo ha potuto sopportare.

Ecco Chiara: lei non c’è più nella sua espressione fisica, si è però distribuita in migliaia di frammenti, di pezzi di ricordi che sono andati a incastrarsi in posti che non immagini. Da una è diventata mille e mille, e per quanto ti manchi quell’unico pezzo intero, ecco, ora lei è anche un ricordo. Un ricordo felice.


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