La responsabilità della sconfitta

Le sconfitte nello sport come nella vita non sono colpa di nessuno. La colpa, specie quella diffusa in tutti i paesi estremamente cattolici ha un’accezione negativa. Ad una colpa coincide una pena, da espiare. La colpa del peccato originale, il colpevole in tribunale. La colpa è un peso, un fardello. Del quale liberarsi possibilmente scaricandolo ma quasi mai espiandola. Le sconfitte sono responsabilità di qualcuno, anche più d’uno.

“La vittoria ha molti padri, la sconfitta è orfana”.

Lo sport, soprattutto nell’ultimo decennio, ha promosso la narrativa della non-sconfitta. Un misto di “anche quando perdo vinco” e “non c’è sconfitta del cuore di chi lotta”. Non a caso queste sono le due frasi che in ambito sportivo m’irritano maggiormente. Ok, ammetto ce ne sono molte ma queste sono nella top 5.

S’è persa la capacità di assumersi la responsabilità. Si, anche nella sconfitta. Perché a prendersi i meriti sono bravi tutti, ma a mettersi davanti al proprio specchio mentale e assumersi la responsabilità d’aver giocato male, così male da aver orientato la sconfitta della propria squadra, è una faccenda tutt’altro che semplice.

Com’è possibile migliorarsi se non s’accetta la responsabilità della propria pessima prestazione, come si può vincere se non s’è perso. Nello sport come nella vita. Riconoscere gli errori, permette di limitarli. Accettare la propria fragilità mentale nei momenti ad alta tensione, aiuta a cercare di porre rimedio a quella condizione.

È mia responsabilità.

Quel dolore che deriva dall’aver perso è il vero motore della competizione. Ma quale “grazie lo stesso”, grazie esattamente di cosa? Del viaggio terminato con un incidente mortale? Ringraziereste l’autista del vostro bus che si schianta contro la pensilina della stazione d’arrivo?

La competizione non permette ipocrisie, l’agonismo non è un passatempo. È uno scontro di volontà. Non ci sono amici in campo: o sono compagni o sono avversari. Non c’è amore fraterno, amore arcobaleno, amore e basta. L’ultimo fine è la vittoria, tutto il resto è un fallimento.

Fallimento.

L’altra parola, concetto, idea che spaventa maledettamente il calcetto a cinque italiano.
Eppure è pieno di fallimenti. Di squadre, di società, di dirigenti. È quella cosa chiamata vita, nella quale i fallimenti si contano in numero estremamente superiore alle vittorie. Ma il calcetto a cinque li derubrica, li nasconde sotto al tappeto delle sue bugie. Quelle che si racconta per non fare i conti con la realtà. Il fallimento è quel momento che precede un nuovo inizio. Semplicemente.

Eppure.

Nessuno, si carica la responsabilità degli eventi. Qualcuno ha perso e non avrebbe dovuto, la responsabilità non può ricadere sul caso, sulla teoria del caos. Qualcosa non ha funzionato. Eppure si finge che vada bene così, allora se va bene perdere com’è possibile ottenere quel miglioramento indispensabile ad ottenere una vittoria. Potete raccontarvi tutte le favole sul valore della competizione, ma rispondete a questa domanda, senza ricercare la risposta: chi è arrivato secondo ai 100 metri nelle ultime olimpiadi? Non lo sapete vero, ecco.

Ci sono sconfitte che non dovremmo perdonarci. Mai.

Quello che conta è il viaggio. Ma per viaggiare occorre un punto di partenza, un momento nel quale ci si è messi “in viaggio”. Quel momento è spesso un punto basso, una sconfitta appunto che la vita ci infligge, senza tener conto del sesso, del censo o del fato. Non dovremmo mai assolverci, comprenderci sì. Comprendere le ragioni di una sconfitta aiuta a non ritrovarsi ancora nelle stesse dannate condizioni. Assolverci invece è dimenticare e quindi condannarsi a ripetere la stessa sconfitta.

Il cervello registra il dolore in maniera permanente. Lo ricorda meglio. È per sempre. Per sempre è anche quel desiderio di non trovarsi ancora in quella condizione, con quel dolore addosso, che è come un cappotto pesante quando fuori ci sono 50 gradi. La vittoria è dopamina, in quell’istante non ti importa davvero di nulla, ma dura poco, dannatamente poco.

Ho perso ed è mia la responsabilità. La colpa, sì per me resta una colpa, forse non dovrei ma la soffro esattamente così, non passa mai. Avrei dovuto vederlo arrivare quel momento, avrei dovuto fare di più e meglio. Non importa se pensavo d’aver dato tutto, da qualche parte è mancato qualcosa, anche s’ero il migliore in campo. Non sono riuscito a far giocare meglio la squadra, a motivarli a fargli desiderare la vittoria esattamente quanto la desideravo io.

Non è la paura di perdere ma la voglia di vincere. Non c’è posto per i pavidi in trincea.
Non perdonarsi mai, esattamente mai.

Se esiste la furia agonistica, la rabbia agonistica e non l’amore agonistico (che a pensarci bene fa già ridere così) c’è una ragione. È in quella ragione che trovate la forza, il coraggio e la dignità d’assumervi le vostre responsabilità. Quelle del fallimento.

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