Quanto conta il gioco?

Le partite tanto di futsal, quanto di calcio, sono spesso terreno per l’infinito dibattito sul “gioco”.
Un unico lemma. Utilizzato per racchiudere, spesso, più concetti. Negli anni, l’estetica di una disciplina ha cercato di assumere preminenza sul risultato.

C’è un livello narrativo, di comunicazione che potrebbe essere interessante esaminare. Addentrandosi nel meandro del racconto sportivo: “giocare bene”.

“Abbiamo dominato la partita per settantacinque minuti”, in conferenza stampa dichiara fiero l’allenatore di calcio al termine di un incontro dal quale è uscito sconfitto per due a zero. Cambiate la quantità del tempo e potrete applicare questo concetto anche al futsal.

Giovanni Galeone, il profeta del 4-3-3, argomenterebbe che quello che conta in realtà è ciò che è accaduto negli altri venticinque minuti. Non ci si può infatti, astenere dal considerare il risultato, come valore assoluto di una prestazione sportiva.

Il fine ultimo è vincere, non intrattenere. Sebbene esista, una pletora di estimatori dell’estetica del gioco. Per confutare l’estetica del gioco, prendo a prestito le parole di Len Shackleton. Come sono riportate nel suo immortale memoir: The Clown Prince of Soccer.

Intervistato dopo una delle sue striminzite vittorie per uno a zero. Al termine di una battaglia. Fatta di calci tanti e pochi al pallone. Si vide sottoporre una domanda che iniziava con l’assunto: “Le sue squadre divertono poco”.

Les irritato dalla domanda idiota, apostrofò così il malcapitato cronista: “Se volete divertirvi andate a vedere i pagliacci del circo”. Un allenatore viene valutato per i suoi risultati. Non per l’estetica del suo gioco. Nessun presidente è disposto a supportare una squadra che perde, “giocando bene”.

Il gioco di una squadra esige finalità. Questa, deve essere funzionale allo scopo del gioco, fare gol. Risultato raggiungibile, attraverso l’assimilazione di una memoria muscolare. Capace di permettere agli atleti di eseguire determinati gesti. Atti ad eseguire concetti tridimensionali, meccaniche tattiche.

Necessita il gioco, infine, di interpreti.
Un ipotetico La Spezia di Guardiola, con un centrocampo formato da Pobega, Deiola e Maggiore, eseguire i concetti di Pep con meno efficacia di Busquet, Xavi e Iniesta.

Il peso della narrativa sportiva, assume a questo livello, il ruolo di cuneo divisivo. Omettendo l’elemento qualitativo degli interpreti del gioco, orienta il racconto incentrandolo sull’astratto dell’estetica.

Evitando scrupolosamente di menzionare gli eventi avversi. Tutte quelle occasioni, quelle partite, nelle quali il suddetto “gioco” viene annullato e poi demolito da quel “non gioco”, vituperato nemico della disciplina.

Al netto di qualsiasi considerazione morale. Simile a quella abusata espressione: “è bella/o dentro” anche rivolto ad un cassonetto dell’indifferenziata, c’è un tabellone. Giudice, ultimo e inequivocabile del risultato sportivo.

Chi vi scrive è tra quelli che uscivano dall’Adriatico felici dopo un 3-2 in B contro il Cagliari. Nel quale dopo quattro minuti eri già sotto. Capace però d’ammettere che alla fine, all’ultima giornata, nonostante la marea di 3-0 rifilati in giro per l’Italia, per andare in Serie A, bisognava vincere. Battere il Parma di Sacchi. Per riuscirci c’è voluto un tiro da fuori area. Una lavatrice scagliata nel sette da Bosco, alla faccia delle sovrapposizioni, delle geometrie e del bel gioco.

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